di Gianluca BERNARDINI
«Come faccio a spiegare questo suo silenzio a questa gente che ha sopportato così tanto? Io stesso ho bisogno di tutte le mie forze per comprenderlo!». Potrebbe essere questa espressione di padre Sebastian Rodrigues (Andrew Garfield), il personaggio centrale, una delle chiavi di lettura con cui comprendere l’ultimo film di Martin Scorsese, «Silence», tratto dal romanzo omonimo di Shusaku Endo, pubblicato nel 1966, ambientato nel XVII secolo. Un libro che ha nutrito lungamente l’anima del cineasta italoamericano che ha impiegato molti anni prima di mettere in scena la storia di questo giovane gesuita portoghese, definito da lui stesso come «l’esempio migliore e più luminoso di fede cattolica», che insieme a padre Francisco Garupe (Adam Driver), parte per il Giappone alla ricerca del loro insegnante e mentore padre Christovao Ferreira (Liam Neeson) che dicono abbia abiurato la fede cattolica e si sia sposato. Giunti in terra nipponica affrontarono, nel nascondimento e non solo, fatiche e ingiurie, come le stesse torture che subirono molti «kirishtan» (cristiani) giapponesi. Molti di essi decisero di morire come martiri (la scena dei tre crocifissi accanto al mare risulta più che paradigmatica). Altri rinnegarono («calpestarono» l’immagine di Cristo) come il loro stesso maestro e così pure alla fine padre Rodrigues che, pur di salvare «qualcuno» (Cristo non avrebbe fatto, forse, la stessa cosa?), venne meno al suo orgoglio e al suo essere prete, tanto da accettare di «abbassarsi» fino all’abiura. Una scelta tormentata e difficile («Sono solo uno straniero che ha portato il disastro… Cosa ho fatto per Cristo? Cosa sto facendo e cosa farò per Cristo?»), continuamente messa in causa dall’esempio di molti (i quali affermavano ai missionari: «Siete voi che ci nutrite») e dal silenzio di Dio che sembra accettare tutto questo dolore («Perché le loro prove devono essere così terribili?»). Un film di una potenza eccezionale, per attori, dialoghi, immagini, musiche e scenografia, nonché costumi (si vede la mano di Dante Ferretti) che difficilmente riusciremo a dimenticare. Non un elogio dell’apostasia (a livello iconico risulta molto chiaro), quanto piuttosto della fede che mai smette di domandare e ricercare risposte, anche quando di fronte alle tragedie il silenzio di Dio sembra essere così opprimente. Un romanzo certo, un film per certi versi ammirevole, necessario perché non si smetta mai di interrogarsi sul proprio essere credenti e testimoni anche oggi.
Temi: testimonianza, fede, martirio, abiura, Giappone, inculturazione.