Dopo una brillante carriera nel documentario la regista Alice Diop approda alla sua prima opera di finzione con la mano di una regista pienamente matura.
Di Gabriele Lingiardi
Tutto il valore di “Saint Omer” è racchiuso nel modo in cui inquadra le due protagoniste: una docente di letteratura che sta scrivendo un volume sulla figura di Medea al giorno d’oggi e una donna, processata (proprio come nel mito) per avere ucciso la propria figlia. Non c’è mai un loro scambio di battute, eppure tutto il film è costruito su un dialogo tra le due, fatto solo attraverso gli sguardi.
Laurence Coly, rea confessa, viene proclamata innocente dalla difesa. Eppure il punto non è accertare i fatti, scoprire il colpevole, bensì capire le ragioni del terribile gesto. Al banco degli imputati di Saint Omer c’è una figura che si erge colta e razionale come la modernità (e la giuria) chiede, salvo poi discendere drasticamente nelle superstizioni e nel mito. Statuaria come una divinità pagana, fragile come una persona vera, Laurence Coly confessa il suo dramma e affida al film una riflessione sulla solitudine dell’immigrazione, sulle fragilità umane e soprattutto sulla maternità.
È quest’ultima che entra nel profondo di Rama, la scrittrice che la ascolta, instaurando un legame invisibile che diventa interrogativo coinvolgente per lo spettatore. “Saint Omer” non è una visione semplice, eppure raramente il cinema contemporaneo ha saputo esprimere una posizione così complessa e non giudicante rispetto a dei temi così scottanti. Con una messa in scena essenziale, calibrata fino all’ultima sfumatura di colore (si osservi come viene ripreso il colore della pelle), Alice Diop ci mette in giuria. Seduti al cinema come in un’aula di tribunale, a farci la nostra idea sui personaggi. Un ultimo, inquietante, sguardo distruggerà ogni (pre)giudizio e farà uscire dalla sala sfiniti, eppure profondamente smossi nel nostro irrigidito senso di giustizia.
Temi: maternità, immigrazione, solitudine, depressione, donne, povertà, giustizia