Jafar Panahi racconta in questa fiction che sembra un documentario la sua subdola denuncia al sistema iraniano ma che dirige a distanza a causa del suo "esilio". In questo suo ultimo film, racconta una storia d'amore instabile, come in parte il luogo dove viene girato.
Di Gabriele Lingiardi
Jafar Panahi è un regista ribelle che conduce la sua lotta attraverso la sua arte. Il regime Iraniano gli ha in passato impedito, con una condanna di 20 anni, di fare film e poi l’ha incarcerato per sei anni. “Gli orsi non esistono” è il suo nuovo film, girato praticamente in esilio, con pochissimi mezzi, e con la rabbia di sempre.
Vedendolo è impossibile pensare che un’opera così graffiante non gli procurerà altri problemi. Per questo è importante correre in sala e ascoltare quello che ha da dire. Non solo: il film è anche un’ incredibile dimostrazione di come le immagini possano cambiare la realtà, sconvolgere le tradizioni e i finti perbenismi.
Il regista nasconde il suo messaggio rivoluzionario sotto almeno quattro strati di film. All’inizio ci sono due personaggi che tentano la fuga dall’Iran. Scopriamo presto che quello che vediamo è un film basato però sulla storia vera (e in tempo reale) degli attori. Lo dirige dalla distanza proprio Panahi, che interpreta se stesso, protagonista e autore del film che stiamo vedendo. Lui vive in un villaggio al confine, che non può valicare.
Si intrattiene filmando e fotografando le usanze ancora quasi tribali del posto. Credono, ad esempio, che ci siano degli orsi che escono di notte. Una storiella per mantenere la paura ed evitare fughe o allontanamenti verso il resto del mondo. L’uomo scatta per sbaglio una fotografia di una coppia. Diventa un testimone essenziale per un processo di presunto tradimento. A sua volta, Panahi, viene accusato di avere mentito rispetto alla sua testimonianza.
Una foto, all’interno di un film su un regista che sta girando un film su una storia vera. Questo gioco a incastro è però messo in scena con chiarezza ed è funzionale al messaggio della storia. Sono sotto accusa tutte le arretratezze. Le superstizioni che soffocano l’uomo, le leggi che pretendono di decidere contro il libero arbitrio dei sentimenti.
Il cinema può anche cambiare le cose? La risposta è sì. Perché l’occhio della cinepresa è un mezzo per svelare quello che c’è sotto l’apparenza che ci costruiamo, uno sguardo indiscreto e senza confini che fa crollare la finzione di una società solo apparentemente in pace con se stessa. Come se riprendesse i suoi soggetti con i raggi X il regista rivela tutte le brutture con una lucidità ai limiti del profetico. Sappiamo che i messaggi difficili costano molto al messaggero che li consegna, ma giovano molto a chi li ascolta.
Temi: esilio, superstizione, società, leggi, regimi, prigione, confini