Nel 2008 “Valzer con Bashir” di Ari Folman apriva una nuova strada al cinema. Era infatti un esperimento di successo: un documentario di animazione, in cui il massacro di Sabra e Shatila veniva ricordato attraverso le testimonianze dei commilitoni del regista. Le memorie disegnate e messe sullo schermo rappresentavano l’orrore filtrandolo con il tratto pittorico alla ricerca di verità.
Di Gabriele Lingiardi
“Flee” di Jonas Poher Rasmussen segue la storia di Amin Nawabi, un trentenne danese nato in Afghanistan e compagno di classe e di infanzia del regista. Attraverso quella che sembra una seduta psicanalitica condotta attraverso il cinema, si ritorna indietro nei suoi duri anni d’infanzia.
Continue migrazioni, prima a Mosca, poi verso la Svezia, e deportazioni mostrate con il solo filtro del disegno animato. Il film infatti non fa sconti: mettendo in scena i traumi del giovane ragazzo omosessuale (e quindi con tutte le difficoltà nel farsi accettare e gli odi che l’hanno colpito) graffia anche l’indifferenza occidentale. Più che mai attuale “Flee” alterna il passato e il presente del protagonista con vere immagini di guerra. La voce che ascoltiamo è quella autentica di Amin, che oggi è un professore universitario, attorno a cui si esprimono inquadrature che sembrano provenire direttamente dalla sua anima per come i disegni esprimono le emozioni provate in quei momenti.
Candidato agli Oscar di quest’anno come miglior documentario, film internazionale e film d’animazione (nessuno ha ma ottenuto queste nomination contemporaneamente) “Flee” è soprattutto una riflessione sull’identità e il valore di ciascuno. Parte da quella singola del suo protagonista per arrivare a interrogarci su cosa siamo noi come collettività. Lo fa senza retorica e alla giusta distanza, diventando così una visione che non si dimenticherà facilmente.
Temi: identità, guerra, migrazioni, famiglia, amicizia, documentario, ricordo, traumi e infanzia