Il nuovo film di Pawo Choyning Dorji ci riporta nel suo Paese per mostrarci salite e ostacoli del cammino democratico. E ci ricorda che il percorso da fare è ancora tanto.

Di Gabriele Lingiardi

C'era una volta in Bhutan

L’immagine di un monaco con un fucile è uno splendido ossimoro cinematografico. Non c’è nessun western, nonostante il titolo e le molte armi, in C’era una volta in Bhutan il nuovo film di Pawo Choyning Dorji già regista di Lunana – Il villaggio alla fine del mondo. Il film era stato un sorprendente candidato all’Oscar come miglior film internazionale nel 2022. Raccontava di un maestro che provava a insegnare in una scuola sperduta nelle montagne del Bhutan.
La nazione è ancora protagonista del suo nuovo film, ma questa volta la prospettiva si allarga. Dai banchi a delle urne elettorali improvvisate. Siamo nel 2006. Il Re ha rinunciato ai suoi poteri. Ci saranno le prime elezioni democratiche. Ma come fare? Fervono i preparativi per una simulazione della tornata elettorale. Nel mentre il Lama cerca un fucile per “sistemare le cose”. Cosa intenderà?

C’era una volta in Bhutan è semplice, e sembra scritto per risuonare più forte fuori dai suoi confini territoriali; nei paesi come il nostro dove l’esercizio del voto porta con sé un senso di impotenza senza precedenti e dove l’esercizio del potere attribuito al popolo è però anche un diritto dato per assodato.
Lo spaesamento dei bhutanesi, la loro incapacità a comprendere non solo come si vota, ma anche perché si vota, è il cuore dell’opera. La democrazia porta delle tensioni a cui non sono abituati, il dibattito pubblico gli sembra un’azione violenta non necessaria. Impareranno la sua nobiltà? La maggioranza vorrebbe delegare ancora al Re tutto questo e continuare a occuparsi solo del proprio nucleo ristretto.

La televisione che attira intorno a sé il popolo e che mostra il fucile di James Bond (grande strumento narrativo in contrasto con il significato di quello dei monaci) potrebbe essere essere uno strumento di aiuto all’apertura verso il mondo. Cosa che poi, nella storia reale, è avvenuta con successo. Al regista questo non interessa, è più appassionato a mostrare non il lieto fine bensì quanto il voto sia un “rito” difficile da eseguire, da vivere e da ottenere.
Sono rari i film così solari e semplici. Vedendolo sembra ribadire qualcosa che sappiamo già. Il messaggio per gli occidentali è: teniamo strette le conquiste belle della civiltà. Allora perché, mentre si guardano le origini di una democrazia ritardataria, tutto questo non ci sembra per nulla scontato?

Temi: democrazia, voto, società, progresso, pace, apertura al mondo, religione