Dalla Mostra di Venezia arriva in sala un intimo e commovente: una figlia che racconta suo padre e un padre che guarda sua figlia. Tra infinita passione per il cinema, il tempo che scorre e il coraggio di guardarsi dentro.
Di Gabriele Lingiardi
Di solito i film come Il tempo che ci vuole non funzionano. Sono opere omaggio, ideate con lo scopo di ritrarre una figura storica importante che non c’è più, attraverso la prospettiva inedita di chi la conosce da vicino. Spesso faticano a ricreare un sentimento privato sullo schermo e a donarlo in maniera convincente al pubblico. Colpa della prossimità emotiva che spesso dà l’impressione di leggere una sorta di diario privato.
Invece Francesca Comencini per omaggiare suo papà Luigi trova un equilibrio non sempre perfetto, ma che conquista e commuove attraverso la giusta misura. Il padre, visto dalla figlia. La figlia, vista dal padre. È tramite questa divisione in due atti che Il tempo che ci vuole riesce a diventare una storia significativa anche per chi non conosce i suoi protagonisti reali o non nutre per loro alcun affetto.
Seguiamo Luigi Comencini con gli occhi della figlia e, grazie a lei, arriviamo sul set di Pinocchio. La bambina si ritrova per sbaglio “in campo” e quando le viene chiesto di uscire dall’immagine corre verso l’orizzonte, ma sempre all’interno dello sguardo della cinepresa. Non le resta che nascondersi nel set, in una splendida sequenza che racconta bene il rapporto tra la regista e il cinema che la assorbe. Luigi è l’autore della fantasia e un padre che crede nei bambini, nel loro pensare senza arzigogoli. Proprio per via della loro sincerità, lui li prende sul serio, quasi mettendosi al loro servizio.
Il film cambia poi, raccontando i difficili anni della giovinezza di Francesca, trascorsi nell’inquietudine, in una solitudine esistenziale che ha portato alla sofferenza delle dipendenze. La prospettiva si ribalta e la regista lascia che sia il padre a prendere la scena. Fabrizio Gifuni interpreta bene un uomo ora incapace di entrare in contatto con la figlia, nonostante ogni sforzo. La vita, che viene sempre prima del cinema (come dice Luigi in una scena), colpisce duro. Sarà poi il cinema a fare sintesi. Senza anticipare un finale forse troppo pieno di simboli, ma anche deliziosamente sovraccarico di emozioni, sarà la visione di un bel film e il ricordo di quando Luigi salvava le bobine prendendole dalle Sale della Comunità, a dare il senso: la bellezza unisce, è vita. La fantasia non resta in cielo, ma migliora il cammino sulla terra.
Temi: padre e figlia, famiglia, cinema, crescita, creatività, dipendenze