Arriva in sala un'altra perla di cinema iraniano che negli ultimi anni ci sta regalando opere potenti che ci raccontano politica e società di questo Paese con incisività.
di Gabriele Lingiardi
Nessuna nazione al mondo è garanzia di un cinema travolgente come lo è quello dell’Iran. Eppure, i suoi cineasti migliori devono produrre di nascosto dalla Polizia Morale con mezzi scarsissimi e in fretta e furia. Rischiano la prigione, o la vita, per farci avere i loro film che spediscono ai festival illegalmente (Cannes ha ricevuto in passato un film tramite chiavetta usb nascosta in una torta). Succede a Jafar Panahi, il potente regista de Gli orsi non esistono, ad Ali Asgari (Kafka a Teheran) e a tutti gli altri ribelli che operano una resistenza attraverso l’arte.
Con Il seme del fico sacro il regista Mohammad Rasoulof è stato condannato a otto anni di carcere e alla fustigazione riuscendo però a fuggire. Per le autorità il suo film è parte di un complotto contro la sicurezza nazionale. Un’opera pericolosa. Basterebbe solo questa “recensione” del regime a invogliare lo spettatore a vederlo. Sono fatti di cronaca che rafforzano la sua potenza, ma di cui non avrebbe bisogno. Perché Il seme del fico sacro è un capolavoro. Tutto ruota intorno a una pistola consegnata a Iman, un padre di famiglia appena promosso a giudice istruttore, nei giorni in cui le strade si sono infiammate per l’uccisione di Mahsa Amini. Le figlie, giovani studentesse, appoggiano nel segreto la rivoluzione. Quando la pistola scompare, il mondo di Iman gli crolla addosso. L’uomo rischia il carcere, la famiglia è in pericolo e sotto indagine, mentre la rivoluzione minaccia persone al potere. Inizia così un thriller a metà tra la durezza di Denis Villeneuve e la suspense di Hitchcock.
Ma la cosa più incredibile è come il film cambi sempre il suo centro costruendo una miriade di prospettive, come se il film ne contenesse molti altri: prima sembra essere dedicato a un dilemma morale, poi alle proteste dei giovani, poi sul sistema della giustizia e così via. La dimensione del racconto passa dall’essere simbolo dell’Iran tutto al più intimo dramma famigliare con un’agilità tale da far gridare al miracolo. Si esce scossi, appassionati, dilaniati, ma soprattutto si fa esperienza della lotta quotidiana di quelle donne di cui non possiamo che essere alleati. Anche attraverso il cinema.
Temi: Libertà, Iran, Morte di Mahsa Amini, oppressione, rivoluzione, famiglia, donne