In corsa per l'Oscar grazie alla strepitosa performance attoriale di Thimothée Chalamet, è in sala il biopic sul cantautore statunitense più famoso di tutti i tempi. James Mangold che ci riporta alle atmosfere di quegli anni magici dove si era certi che l'arte avrebbe cambiato il mondo.
Di Gabriele Lingiardi
Entra in scena come un perfetto sconosciuto il Bob Dylan di James Mangold in A Complete Unknown, il nuovo film biografico sul cantautore. Esce di scena come un agente del caos, un rivoluzionario.
L’impresa non era semplice, dopo Io non sono qui di Todd Haynes che ripercorreva sette vite del cantante attraverso sei attori diversi. La scelta qui è stata di andare all’opposto: si carca il biopic tradizionale grazie al talento d’attore di Timothée Chalamet, con dei posti già prenotati agli Oscar. A sorpresa però quello che funziona di più non è tanto il cambiamento umano e musicale (dal folk alle contaminazioni rock) del protagonista bensì il contorno. La scena migliore arriva quasi subito: la dedica del giovane al suo mito, Woody Guthrie, sfiancato a letto dalla malattia di Huntington e assistito da Peter Seeger. Due giganti della musica impegnata, quella che cantava l’America, dell’attivismo in note, portato alle folle poi da Dylan insieme a Joan Baez. A Complete Unknown mostra il potente legame tra la musica e la vita vera. Tanto che i testi sembrano delineare stati emotivi interni dei personaggi, proprio come farebbe un musical. Eppure qui si tratta “solo” di un film su un musicista. Dove le canzoni non sono aggiunte alla messa in scena con tutto il mondo che canta, ma sono esibizioni, dialoghi tra chi esegue e chi ascolta. Così Sylvie si sente lasciata da Bobby semplicemente osservando l’esecuzione di The Times They Are a-Changin’. Allo stesso modo le sonorità moderne di Like a Rolling Stone hanno dialogato con il pubblico entusiasmandolo e scandalizzandolo. Nel finale c’è chi applaude al futuro, chi lo teme confidando nella forza del passato. In questa tensione musicale il film riesce a raccontare, seppur in maniera stilizzata, come si viveva negli anni ’60 la paura di una nuova guerra, mitigandola con la convinzione più pura e adamantina della capacità dell’arte di cambiare concretamente le cose. Unendo le persone intorno a dei versi comuni, ma anche rendendo simboli coloro che li cantano. Vissuto con gli occhi e le orecchie rassegnate di oggi, il film fa quasi male.
Temi: musica, crescita, cambiamento, solidarietà, attivismo, anni ‘60