Clint Eastwood torna alla regia e firma una piccola gemma di cinema, un film tecnicamente impeccabile che invita il pubblico a riflettere sulla verità, sulle sue rappresentazioni e le possibili interpretazioni.

Di Giovanni Scalera

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Con “Giurato Numero 2” Clint Eastwood ci propone un thriller giudiziario che va oltre il mero intrattenimento e invita lo spettatore a una seria riflessione sulla giustizia e sulla fragilità della verità. Al centro della storia troviamo Justin Kemp (Nicholas Hoult), un giovane chiamato come giurato in un processo per un omicidio. Mentre il caso procede, Kemp scopre di essere stato involontariamente coinvolto in un evento chiave durante la notte del delitto. Tormentato dai dubbi, mette in discussione la colpevolezza dell’imputato, nonostante le prove apparentemente schiaccianti.

La trama solleva importanti interrogativi sulla natura della verità. È essa un concetto oggettivo, o piuttosto un costrutto sociale, plasmato dalle nostre esperienze e dalle nostre convinzioni? La verità è qualcosa di sfuggente, nascosta dietro a uno spesso strato di interpretazioni e pregiudizi? Domande oggetto di una riflessione che rimanda sottilmente al pensiero di Nietzsche, storico sostenitore dell’inesistenza di fatti assoluti, ma solo di interpretazioni degli stessi.

Il film esplora a fondo oltre ai meccanismi della giustizia, anche le zone d’ombra della coscienza individuale. Ogni personaggio, dal procuratore ambizioso al giurato più scettico, mostra un piccolo mondo di debolezze e pregiudizi in cui si riflette la complessità della natura umana.

Il finale aperto del film invita lo spettatore a riflettere sulla complessità di tutto il sistema e su quella relatività che caratterizza la “verità” finché la realtà non bussa alla porta della nostra vita. Con la sua regia precisa e misurata, Clint Eastwood riesce a mantenere, per tutta la durata del film, un’atmosfera tesa e claustrofobica all’interno dell’aula, dove la verità sembra sfuggire a una presa definita. I primi piani sui volti dei giurati permettono allo spettatore di cogliere le sfumature più sottili delle loro emozioni, trasformando l’aula in un vero e proprio palcoscenico per un dramma interiore.

Opera d’arte di riferimento: “La Giustizia” del Vasari